IL PERDONO: quando fa bene alla psiche?
Quando non insorge secondo tempistiche brevi, quando si concede di riconoscere e sentire tutte le emozioni negative (rabbia profonda , rancore , odio di fronte ad atti gravi), indispensabile per un’elaborazione reale, “precedendo” la trasformazione prima della sintesi emotiva in ricercata pace. Il Perdono “a tutti i costi”, per aderenza ideologica ma non sentito, è preludio di disagio di personalità : incapacità di accettare le proprie emozioni negative tramite barriere difensive fintamente “salvifiche”
“Perdono” ed “accettazione” non sono la stessa cosa.
In questi giorni si assiste ad un bombardamento di notizie giornalistiche su fatti di cronaca di crescente ed inaudita gravità , che portano ognuno a porsi domande più o meno simili: si può davvero perdonare chi commette reati estremamente gravi , chi violenta una donna senza alcuna pietà , chi commette un assassinio sottraendo per sempre la vittima all’affetto dei cari, chi stermina interi paesi con atti di terrorismo?
Senza scomodare fatti pubblici di estrema risonanza, forse è più facile darsi una risposta se pensiamo al quotidiano personale: e se un amico ti tradisse ad esempio rivelando un tuo importante segreto, se un partner fosse venuto meno all’obbigo di fedeltà , se un collega competesse in maniera sleale, ora che riguarda direttamente te, saresti in grado di perdonare?
Prima di rispondere alla complicata domanda, riflettendo anche sulle condizioni per cui la bontà del perdono riesca davvero a fare bene a chi lo applica, sottolineo che non a caso ho differenziato l’ “offesa pubblica” dall’ “offesa privata”.
Quando la possibilità di Perdonare fa davvero bene alla psiche, riscoprendosi come capacità in potenziale in essere in ognuno di noi e quando crea , invece, danni ulteriori ad un’ego già ferito?
Riflettiamo su questi punti:
- Il Perdono è un atto Spirituale, non un atto religioso, ovvero un atto umano , profondo e soggettivo che oltrepassa ed anticipa l’appartenenza ad un gruppo religioso che, per l’essenza stessa dell’essere “gruppo” porta inconsciamente ( o consciamente) all’adesione di “suggerimenti comportamentali”. Non è necessario appartenere o appoggiare filosofie e credo religiosi spesso proponenti il perdono come atto di elevazione all’incontro con il soprannaturale pacificatore, possono dimostrare capacità immensa di reale perdono atei, miscredenti e quant’altro e non sentirlo invece sentimento spontaneo gli altri, essendo atto libero da categorizzazioni limitanti nella possibilità di attuazione o meno.
- Che il Perdono sia “fatto umano”, impregnato di vulnerabilità d’insorgenza “sentita”, si comprende anche dal carattere inversamente proporzionale nel suo meditato o non meditato esordio: Sembra esserci maggiore propensione nel perdonare l’ “offesa pubblica” rispetto all’ “offesa privata”. Dunque per molti non è la gravità del fatto a determinare la possibilità di “perdono” ma quanto “tocca personalmente me”. I fatti di cronaca lo dimostrano : dopo l’indignazione generale si cominciano a cercare “attenuanti” interpretative, molto difficili da trovare “in breve tempo” quando a subire siamo direttamente noi. E mi verrebbe da dire “ meno male” perché il perdono, per essere reale, ha bisogno di tempo.
- Il Perdono nel suo manifestarsi ha bisogno di tempo, di elaborazione di un atto prevaricante vissuto come vero e proprio lutto: deve vivere tutte le emozioni negative
“sentite” prima di trasformarsi in possibilità di assestamento emotivo.
Il RANCORE, ODIO , RABBIA PROFONDA, non sono emozioni contrarie ed opposte alla possibilità di Perdono “sentito” , sono indispensabili per un’elaborazione reale, perché “precedono” la trasformazione e la sintesi emotiva, ponendosi di fronte ad un essere umano “vero”, caratterizzato da sentimenti in contrasto prima dell’assestamento tradotto in scelta di serenità interiore.
- Perdonare subito non è perdonare , venendo a mancare l’umana ed indispensabile condizione di poter prima vivere il contrasto in negativo che precede, rendendolo reale, il “perdono sentito” . Il Perdono “affrettato” è una barriera autoprotettiva verso l’impossibilità di reggere i propri sentimenti negativi, rifiutati tramite azioni bonificatrici non reali , presto preludio di disagi di personalità : disturbi psicosomatici, abbassamento dell’autostima, esaurimento nervoso ed atti di maggior pregnanza comportamentale.
CHI SCEGLIE DI “non perdonare” non sarà mai in pace con se stesso? Non è detto.
Ciò che permette o meno di “trovare la pace” non è necessariamente “concedere il perdono” all’altro , ma tenere conto della valutazione soggettiva dell’entità del danno subito.
Racconta un noto scrittore in un suo testo di non aver mai perdonato il padre neanche nel momento dell’estremo saluto, ricordando episodi in cui, quand’era bambino veniva , senza motivo, legato ad un albero e preso a cinghiate proprio da colui che per natura lo avrebbe dovuto proteggere. Forse difensivamente , forse no, sostiene di non averlo mai perdonato per il male psicologico e fisico subito nella reiterazione dell’ atto e di essersi salvato dall’ impazzire solo tramite il “non perdono” vissuto come atto personale di conservazione e ripristino della propria dignità .
Con gli anni poi, crescendo, capì che la pace interiore non l’avrebbe mai ottenuta tramite il perdono dell’altro come mortificazione di se stesso, ma con l’accettazione dei fatti secondo un soggettivo criterio interpretativo.
Accettare i fatti accaduti dopo un lungo tempo di elaborazione , a volte è criterio di sanità maggiore , perché fondato su una verità possibile, rispetto ad un perdono ben difficile anche solo da immaginare. Perdono ed accettazione non sono la stessa cosa.